Era una domenica grigia come molte altre autunnali, assolutamente noiosa e poco entusiasmante. Sarei potuto uscire, magari avrei anche trovato qualcosa di bello da fare, ma le imponenti nuvole sopra la testa mi hanno convinto a rimanermene nel comfort casalingo. D’altronde, tra studio, lavoro, ricerca e semplici attività domestiche di routine, certo non mi sarei annoiato. D’un tratto, però, mi è tornato in mente un consiglio di visione che un caro amico m’aveva dato di recente, riguardante il l’opera di Judge del 2006 “Idiocracy”, e ho optato per guardarmelo. Quando ho creato questo sito, però, la mia intenzione non era di recensire le opere letterarie e cinematografiche che mi trovo ad apprezzare, quanto piuttosto di fare delle considerazioni a tema generale sulla base degli spunti che queste sono state in grado di darmi. In quest’articolo non ho intenzione di fare diversamente.
Il film è una commedia distopica che si apre con un confronto tra due coppie, una composta da persone particolarmente intelligenti e l’altra da idioti, nel loro approccio all’idea di procreare. I primi, consci di tutte le responsabilità che avere un figlio comporta, decidono di aspettare, anche se poi l’attesa si protrae talmente a lungo da annullare le loro possibilità di scelta; i secondi, invece, non si fermano un attimo e sfornano bambini come fossero torte in una pasticceria. D’altronde, come spiega lo stesso film nella sua introduzione, in assenza di un nemico evidente per la sopravvivenza della specie, non sono più le caratteristiche “migliori” a caratterizzare l’evoluzione, ma piuttosto quelle che si diffondono più velocemente: secondo il film, pertanto, gli individui intelligenti, che si riproducono ad un ritmo più lento, diventeranno via via col passare degli anni sempre più una minoranza, per finire poi nella definitiva estinzione. Non certo una bella prospettiva. Il film poi prosegue mostrando la società umana dopo 500 anni, sostanzialmente confermando la teoria iniziale e avviando la propria trama.
Come ogni opera distopica, l’autore prende in considerazione alcuni elementi presenti nella sua contemporaneità e li esagera fino a farli diventare “il futuro da cui dobbiamo assolutamente scappare”. Questo processo lo possiamo vedere per tutti i grandi titoli del genere: “1984” (G. Orwell) aveva preso le caratteristiche del comunismo e le manie di controllo del nazismo, estremizzandole fino a creare il mondo dominato dal Partito; “Il mondo nuovo” (A. Huxley) è l’idea moderna dell’utopia industriale portata alla sua unica conclusione logica, evidenziando come questa distrugga la creatività e la cultura; “Fahrenheit 451” (R. Bradbury) non è nient’altro che il desiderio, molto presente in America sotto il periodo della guerra fredda, di intrattenimento banale e inoffensivo come via di fuga dalla realtà, anch’esso portato alla sua logica conclusione. Tuttavia, ciò che almeno personalmente mi fa porre quest’opera su un gradino superiore rispetto alle altre, è l’enfasi che viene posta sulle conseguenze di attività che, nonostante siano ampiamente riconosciute come dannose, vengono promosse sempre più spesso come parte del proprio stile di vita.
Nell’articolo “Come muore l’uomo” (link), raccontavo come mi capitasse sempre più spesso di vedere attorno una popolazione via via meno propensa al lavoro su sé stessa, alla progettazione del proprio futuro, al raggiungimento dei propri risultati. Sempre in quell’articolo, criticavo come causa di tale epidemia comportamentale la tendenza di pensare al breve termine, di preferire il divertimento al lavoro, così da non doversi “isolare” dalla vita sociale a costo, però, di ottenere risultati nella media. Uno stile di vita di questo genere, che alla fin fine non si discosta troppo dalla ricerca compulsiva di risposte al proprio desiderio che Zygmunt Bauman ben descrive nel saggio “Amore liquido”, porta inevitabilmente ad un impoverimento personale. Questo percorso infatti non porta ad altro che a giornate miserabilmente identiche tra loro, caratterizzate dall’incapacità di interessarsi e interessare perché troppo distratti da quel profondo, rimbombante e doloroso senso d’insoddisfazione che tuona di sottofondo. Tristemente, soprattutto nell’era di internet, moltissime persone si ritrovano bloccate a girare in tondo all’interno di questo dedalo: la sovrabbondanza di stimoli ci indebolisce sulla ricezione di dopamina, rendendoci sempre più incapaci di apprezzare e sempre più schiavi delle fonti di tali stimoli. Intere aziende, in primis quelle legate ai social network, non hanno fatto altro che drogare la popolazione attraverso questo sistema per costruirsi quelle montagne di soldi su cui si siedono beate.
Il risultato è stato semplice: la persona media non ragiona più, perché ormai priva di senso critico, e ha una cultura che rasenta i minimi storici. Direi, tra l’altro, che l’isteria di massa a cui assistiamo ormai da due anni, sebbene ben nascosta sotto agli epiteti di “salute” o “benessere collettivo”, non fa altro che confermare tutto ciò. Si è passati da giornate caratterizzate da conversazioni, movimenti e fisicità a individui lobotomizzati che tra serie tv, video su youtube, post su reddit e qualche porno, iniziano e concludono le loro giornate davanti ad uno schermo, magari in compagnia di qualche snack ad alto contenuto calorico. Non è strano poi che l’ansia sociale, l’obesità, la depressione e l’insonnia siano diventate le grandi star di questo secolo: questo scenario l’abbiamo costruito noi. D’altronde, perché uscire a vedersi con gli amici, quando puoi mandar loro un messaggio? Perché leggere, quando puoi guardare un video su youtube? Perché allenarsi, quando puoi invece guardarti un film? Perché cucinare sano, quando puoi comprarti dei biscotti al cioccolato già pronti?
Così facendo, abbiamo costruito una società costituita non tanto da persone, ma da semplici consumatori. Non è un’offesa, né una presa di posizione arrogante: è la semplice verità. Abbiamo giovani perplessi, il cui umorismo lascia ancora più perplessi, che considerano il divertimento maggiore ubriacarsi, drogarsi, e “scrollare” su instagram. Non un’idea, non un progetto, non creano: usano. Ovvio poi che chi si comporta diversamente, eccelle e spicca: è diventato talmente raro, che la sua semplice esistenza assume valore. Manca la proposizione, manca l’interesse ad agire, e se la politica e la società non stessero già facendo abbastanza per annientare le speranze di serenità future, la sovraesposizione da stimoli ha deciso di dare il suo significativo contributo. Banalmente, osservate come la qualità dei dibattiti politici sia andata degradandosi contemporaneamente in tutto il mondo: il pubblico è incapace di pensare o comunque di rimanere attento per più di un minuto, quindi predilige colui che urla, fa versi e boccacce e parla per slogan. Non lo predilige perché migliore, ma perché riesce a rispecchiarcisi. Non disprezza gli altri, semplicemente non riesce a seguirli e, pertanto, non li comprende. Delle implicazioni politiche di questa deriva sociale, tra l’altro, ne parlavo più accuratamente già in “Il paradosso della democrazia” (link).
E cosa succederebbe se il mondo fosse costituito interamente da persone di questo calibro, che abbassano la loro produttività e intelligenza ad ogni generazione maggiormente? La risposta è esattamente questo film: nessuno è più capace di fare nulla. La serietà, la capacità di pensare e ragionare, il senso critico e lo spirito d’iniziativa scompaiono per lasciare spazio a risate, istinti animali e giochi infantili. La società collassa e con essa tutta la sua struttura.
Fortunatamente, l’opera è tutto meno che profetica, per due fondamentali ragioni. Innanzitutto, il film descrive una società anti-intellettualista, mentre, almeno per ora, la nostra ha raggiunto lo stadio di pseudo-intellettualismo. In secondo luogo, l’eugenetica che fa da premessa al film non è propriamente una tesi scientifica ma, anzi, la potremmo porre quasi sullo stesso piano dell’astrologia. Tant’è vero che le statistiche evidenziano, col passare degli anni, un aumento nell’intelligenza generale della popolazione, piuttosto che il contrario. Ciononostante, l’opera lascia comunque buoni spunti di riflessione sullo stato della società e sul suo potenziale futuro.
Per quanto l’intelligenza non sia una variabile trasmissibile geneticamente, l’ambiente in cui viviamo e le abitudini che assumiamo influenzano ogni aspetto della nostra vita, intelligenza compresa. Fortunatamente, però, abbiamo ancora il privilegio di scegliere che strada prendere.
Letture consigliate dopo questo articolo: “The rise of pseudo-intellectualism” (C. Umeadi), “Il paradosso della democrazia” (M. Marinelli), “Amore liquido” (Z. Bauman), “Come muore l’uomo” (M. Marinelli).