Tra la fine del 2012 e la prima metà del 2013, un uomo a cui vorrei personalmente dedicare questo articolo, mostrò concretamente per la prima volta al mondo un fatto che, fino a quel momento, non era stato altro che speculazione dei complottisti: la sorveglianza di massa. Quell’uomo era Edward Snowden, informatico e informatore statunitense, amministratore di sistema alla NSA (Agenzia di Sicurezza Nazionale). Proprio quest’ultima caratteristica gli ha permesso di accedere a tutta una serie di informazioni estremamente riservate e, soprattutto, di scoprire che lo spionaggio nazionale non veniva fatto solo su obiettivi circoscritti, come era tipico in passato, ma veniva esteso generalmente a chiunque, raccogliendo tutti i dati possibili sugli individui in dossier segretati e permanentemente archiviati (da cui il titolo del suo libro, “Permanent record”). Una scoperta tale non poteva rimanere segreta, pertanto l’attivista rese tutte le informazioni disponibili al grande pubblico, intestandosi il 21 giugno 2013 una condanna per la violazione dell’Espionage Act del 1917 e per furto di proprietà di governo, costringendosi alla vita da eremita in qualche luogo sperduto della Russia. La vicenda di Snowden, affascinante nel suo piccolo, è ricordata principalemente perché ha dato inizio ad uno dei dibattiti più lunghi e accesi dell’ultimo periodo: privacy e sorveglianza di massa.
La sorveglianza di massa non è altro che quella dannosa e sempre più tipica pratica di spiare e controllare parte o l’intera popolazione, e può essere applicata attraverso una miriade di mezzi diversi: dai sistemi CCTV (sostanzialmente le telecamere) alle intercettazioni email, dall’aggregazione di dati ad opera di alcune famose aziende alle compromissioni e agli attacchi informatici. A differenza di quanto sia comune pensare, tra l’altro, questo tipo di controllo non è messo all’opera solo da strutture governative, ma anche da società private: basti pensare, momentaneamente, allo scandalo sorto qualche anno fa attorno alla britannica Cambridge Analytica.
La sorveglianza di massa, e tutto quanto connesso, sebbene venga presentata come lo strumento definitivo per la lotta alla criminalità e al terrorismo, ha un problema fondamentale che la rende essa stessa una pratica criminale e quasi terrorista: ci toglie la privacy. E senza privacy, siamo schiavi lobotomizzati. Banalmente, la privacy è il diritto senza il quale nessun altro ha senso di esistere: a cosa servirebbero le libertà di parola e di pensiero, senza però avere un posto dove poterli esercitare in sicurezza, lontani dalle orecchie governative?
Che poi è curioso, perché le persone che affermano convintamente che la privacy non sia qualcosa di importante, tendenzialmente sono le prime a mettere in atto tutta una serie di misure per proteggersela. Sono proprio queste le persone, normalmente, le prime a difendere le password dei propri account con il sangue, per evitare che altri vedano i propri social o le proprie email, e chiudono a chiave la porta della camera o del bagno, per evitare che altri possano entrare nel loro regno privato. Ma ciononostante, continuano a difendere la posizione secondo cui la privacy non è importante. Per esempio, nel 2009, l’allora CEO di Google, Eric Schmidt, in un’intervista sui danni alla privacy effettuati dalla sua compagnia, rispose tranquillamente che “se stai facendo qualcosa che non vuoi che gli altri sappiano, non dovresti farlo a priori”. Questa mentalità è commentabile in molte maniere, ma il termine che personalmente preferisco è “ipocrita”. Perché, come dicevamo, le persone che se ne escono con queste brillanti affermazioni tendono a comportarsi in maniera diametricalmente opposta. Infatti, fu lo stesso Eric Schmidt, ancora CEO di Google, a comunicare a tutti i suoi dipendenti di interrompere le comunicazioni con la rivista CNET, dopo che questa aveva pubblicato un articolo colmo di dettagli personali e privati sull’ammnistratore delegato. Dettagli, tra l’altro, ironicamente ottenuti attraverso delle banalissime ricerche su Google. O ancora, Mark Zuckerberg, che tutti conosciamo per avere “ideato” la piattaforma Facebook, in un’intervista nel 2010 aveva dichiarato che “la privacy non era più una norma sociale”: peccato che poi, qualche anno dopo, quando è arrivato il momento di comprare casa insieme a sua moglie, non ha acquistato solo la casa, ma anche le quattro case adiacenti, per un totale di 30 milioni di dollari, solo per assicurarsi di avere una zona di privacy che impedisse agli altri di osservare ciò che facessero nella loro vita privata. Al solito, mentalità ipocrita di facciata.
Perché tutti noi, anche coloro che ufficialmente lo negano, riconosciamo istintivamente l’incredibile importanza che ha la propria privacy.
Certo, l’essere umano è un animale sociale, e come tale necessita di altri per sapere e capire come orientare le proprie azioni, i propri pensieri e il proprio percorso di vita: questa è la società, ed è anche il motivo per cui pubblichiamo volontariamente online informazioni su di noi.
Ma tutti, nessuno escluso, abbiamo bisogno di un posto dove poter andare fuori dallo sguardo critico della società, e non per questo siamo terroristi o criminali: ci sono milioni di cose che facciamo e che pensiamo, che possiamo raccontare al nostro medico, all’avvocato, allo psicologo, all’amico o alla ragazza, ma che ci vergogneremmo infinitamente a raccontare a chiunque. Paure, vulnerabilità, fallimenti, relazioni, sconfitte, ferite, fantasie e problemi, presenti, passati e futuri: queste sono informazioni che chiunque di noi vuole mantenere private, a prescindere da quanto può raccontare diversamente davanti ad una bella telecamera o dietro la protezione di uno schermo illuminato. E’ la nostra intimità, d’altronde.
C’è un motivo per cui la privacy è un diritto così voluto instintivamente e universalmente: quando siamo osservati, il nostro comportamento cambia radicalmente, si limita a ciò che è socialmente accettato. La vergogna, cioè ciò che ci blocca istintivamente in quella situazione, è un’emozione fortissima, che è tanto motivatrice quanto intenso è il desiderio di evitarla. Deludere le aspettative altrui, o andare contro le convenzioni sociali di base, genera nell’individuo una quantità di vergogna tale che questo, immediatamente, inizia ad assumere un comportamento più remissivo e conformista. Si indebolisce, perde il suo carattere.
Non è certo un concetto nuovo, anzi: alla fin fine, la caccia alle streghe e la gogna pubblica medioevale si basavano interamente su questo principio. Nel 1791 il filosofo francese Jeremy Bentham aveva progettato, basandosi su questo principio, il carcere ideale, il panottico: il concetto della progettazione era quello di permettere ad un unico sorvegliante di osservare tutti i detenuti tramite un’enorme torre posta al centro, senza però permettere di capire a questi in nessun momento qualora fossero o meno controllati. Fondamentalmente, i detenuti dovevano dare per scontato, in ogni momento, di essere guardati, rendendo il panottico lo strumento ideale per mantenere obbedienza e disciplina. Non troppo più tardi, nel 1975 il filosofo e saggista francese Michel Foucault, pubblica un libro controverso quanto attuale chiamato “Sorvegliare e punire: la nascita della prigione”: in questo libro, sostanzialmente, non solo dava pieno supporto alla teoria del panottico, ma definiva quella struttura la chiave del controllo sociale per le società occidentali moderne, che dovevano smettere di utilizzare la violenza per imprigionare i dissidenti, e passare piuttosto alla sorveglianza di massa, data la prigione mentale che crea nelle teste della popolazione. Questo tipo di imprigionazione è uno strumento molto più sottile, sebbene più efficace della mera forza bruta, per obbligare all’obbedienza alle norme sociale, alle leggi, all’ortodossia e via di seguito. Pure l’immenso George Orwell, nel suo ritratto distopico della realtà “1984”, si basa sulla teoria del panottico per immaginare una sorveglianza di stato futura. Certo, all’interno del romanzo i cittadini erano controllati costantemente attraverso monitor nelle loro case, ma il messaggio dell’autore era un altro: la sorveglianza statale del futuro non sarebbe stata quella per cui lo stato avrebbe controllato costantemente le persone, bensì quella per cui le persone sarebbero state consapevoli di poter essere monitorate in qualsiasi momento.
Naturalmente, non era possibile sapere se e quando si era sotto osservazione. […] Comunque fosse, si poteva collegare al vostro apparecchio quando voleva. Dovevate vivere (e di fatto vivevate, in virtù di quell’abitudine che diventa istinto) presupponendo che qualsiasi rumore da voi prodotto venisse ascoltato e qualsiasi movimento – che non fosse fatto al buio – attentamente scrutato.
Estratto di “1984” di George Orwell
Queste opere così tra loro differenti, alla fin fine, hanno un messaggio comune, la loro conclusione condivisa: una società in cui chiunque può essere sorvegliato in qualasi momento è una società che produce obbedienza e sottomissione, ed è il motivo per cui qualunque dittatore e tiranno, più o meno apertamente, punta a questo sistema. Il Partito Comunista Cinese con il suo sistema di credito sociale ne è la più chiara e limpida esemplificazione.
Il mondo della privacy, alla fin fine, non è altro che il contrario di queste malate distopie: un mondo in cui la capacità di andare a pensare, ragionare e parlare lontani dagli occhi giudici della società non è negata ma anzi è incentivata. Un mondo in cui il dissenso, la creatività e la curiosità sopravvivono. Nel momento stesso in cui permettiamo l’esistenza di una società in cui siamo costretti e soggetti al monitoraggio continuo, stiamo indebolendo la nostra libertà, la nostra essenza.
Ciononostante, esistono ancora persone che, aperto il dibattito sulla privacy, rispondono che non gli interessa perché non hanno nulla da nascondere, sottintendendo che solo le persone con la coscienza in disordine abbiano da preoccuparsi per la privacy. Innanzitutto, è un’affermazione che si confuta da sé: dire che non ti interessa la privacy perché non hai niente da nascondere non è affatto diverso da dire che non ti interessa la libertà di parola perché non hai niente da dire. Ma lasciando perdere questo per un attimo, questa afferamazione rafforza e diffonde due messaggi altamente distruttivi. Da una parte, infatti, fa passare il messaggio che solo le “brutte persone”, i “cattivi”, si preoccupano della privacy: è una conclusione errata che dovremmo assolutamente evitare, perché, anche ignorando l’ipocrisia di questa frase già descritta in questo articolo precedentemente, la concezione di “brutta persona” di un civile differisce terribilmente da quella di chi esercita il potere. Per i secondi, infatti, tale condizione viene concettualmente estesa a chiunque sfidi la loro posizione. Dall’altra parte, questo tipo di mentalità costringe ad un compromesso: si può essere liberi dai pericoli della sorveglianza e della mancanza di privacy solo ed esclusivamente se si è disposti a diventare sufficientemente innocui e poco minacciosi nei confronti di coloro che detengono il potere. Magari voi non siete quel tipo di persona, magari voi non siete dei “dissidenti”, ma il semplice fatto che ci siano altre persone non solo disposte, ma anche capaci a resistere e a contrastare quel potere, è qualcosa che migliora la nostra condizione di cittadini e di esseri umani, e che dovremmo preservare a tutti i costi. Bene o male la misura della libertà di una società è data da come vengono trattati i dissidenti, non certo da come vengono trattati i cittadini buoni, obbedienti e remissivi.
Fortunatamente il tema della protezione della privacy si sta diffondendo tra la popolazione: secondo le più recenti statistiche al riguardo, l’ormai 81% dei cittadini americani crede che l’accumulo di dati e la profilazione da parte delle aziende possa essere più dannosa che vantaggiosa. Ma non basta, serve che vincoli, obblighi di trasparenza e leggi impediscano alle aziende e ai governi di ledere la privacy individuale: con il GDPR, l’Unione Europea ha iniziato questo lunghissimo percorso, ma non è sufficiente normare l’utilizzo dei dati, bisogna fare lo stesso come minimo anche per il raccoglimento dei dati. Non è possibile che, attualmente, un cittadino interessato alla propria privacy sia costretto a mille limitazioni e sacrifici nell’esperienza che ha dei dispositivi, perché fintanto che la privacy sarà un diritto riservato a quei pochi individui consapevoli e capaci di limitare le informazioni caricate in rete, questa battaglia sarà persa. E tutti noi, come umani e come cittadini, potevamo fare di meglio.
Se questo articolo ti è piaciuto, potrebbero piacerti anche questi altri L’abolizione del contante ci renderà schiavi e La sostenibilità democratica ai tempi della pandemia.