Nel corso del mese di settembre, l’Egitto è stato soggetto ad interessanti movimenti popolari nei confronti del governo Sisi, andando a costituire un precedente non di poca rilevanza oltre che tutta una serie di possibili nuove prospettive per il paese e, indirettamente, anche per l’Europa. Queste massicce proteste del mese precedente sono, di fatto, qualcosa di inusitato per il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi che, sulle ceneri della lunga eredità di Hosni Mubarak e della breve stagione del potere in mano alla Fratellanza Musulmana, si è fin da subito occupato di costituire un regime fortemente repressivo.
E proprio per questo motivo tali proteste, passate a dire il vero abbastanza inosservate nei canali d’informazione tradizionali, sono da considerarsi davvero importanti: costituiscono un segnale importante che ricorda la fragilità di quella sottospecie di “patto sociale” che, per ora, sembra reggere diversi paesi mediorientali, tra cui ovviamente l’Egitto. E ciò è confermato dal fatto che, apparentemente d’improvviso, è esplosa la presenza di movimenti di piazza anche a Baghdad e altre zone dell’Iraq meridionale, facendo pensare che forse oltre alla corruzione politica le motivazioni alla base di queste insurrezioni stiano principalmente nelle complessive condizioni di vita dei cittadini. Muovendoci un attimo indietro temporalmente, troviamo anche le insurrezioni che hanno caratterizzato Algeria e Sudan nella prima metà del 2019 che, insieme alle altre ulteriori enormi proteste seguite da qualche lieve cambiamento ai vertici, avevano già fatto pensare di essere tornati alla “primavera araba” del 2011. Effettivamente non è un’affermazione tanto astrusa, essendo le premesse delle contestazioni, delle proteste e talvolta delle violenze le medesime della Primavera. Sebbene siano passati otto anni, realmente la situazione socio-politica di quei territori è rimasta invariata, ad eccezione della Tunisia, che però tuttora sta vivendo un periodo di transizione, per quanto incerta.
Differenze rispetto al 2011
Ovviamente, però, il tempo non si è fermato e assistiamo a delle differenze sostanziali rispetto alle vicende del 2011. La prima, essenziale, è che nei paesi, come banalmente lo stesso Egitto, in cui sia stata realizzata una sorta di piena restaurazione non si sia verificato un reale cambiamento delle condizioni di vita. Sostanzialmente, nel caso dell’Egitto, il prezzo pagato per la stabilità è stato la sostituzione di un regime autoritario con un nuovo regime autoritario, che però certamente non è in grado di permettere al paese di crescere né in termini di benessere né tantomeno per quanto concerne le libertà civili rispetto al trentennio Mubarak. Parliamoci chiaro, le opportunità certo non sono mancate, soprattutto considerando il ritrovamento di giacimenti offshore di gas naturale nel 2015: il sistema politico egiziano, molto semplicemente, è stato completamente incapace di sfruttare le occasioni di sviluppo che gli si sono presentate davanti, probabilmente perché troppo occupato a sembrare stabile agli occhi stranieri.
La seconda sostanziale differenza giace nell’esperienza offerta dall’ISIS in Iraq e in Siria: sebbene questi siano stati i due luoghi che più di tutti ne hanno sofferto la violenza, l’opzione radicale islamista ha mostrato sì il suo lato distruttivo ma al contempo anche tutti i propri limiti. Il “Califfato”, infatti, ha avuto brevissima vita e poco spazio politico, riuscendo al contempo però a scatenare l’azione repressiva da parte degli attori internazionali, precludendosi quindi fin da subito il suo radicamento sul territorio. E sebbene l’ideologia che ha portato alla formazione e all’alimentazione dell’ISIS non si sia certo estinta, questa sua breve storia dovrebbe suggerire un suo futuro circoscritto come ennesima forza politica aspirante ad identità statuale.
La terza differenza giace nei rischi percepiti riguardo gli eventuali collassi delle strutture statali, come dimostrano egregiamente la Siria in molte parti del paese e la Libia quasi completamente. Tra l’altro, la difficoltà di ricostruzione di un tessuto statuale politico ed amministrativo in Iraq, successivamente alla caduta del regime di Saddam Hussein, conferma la generalizzazione del problema, seppur con caratteristiche specifiche per ciascun paese.
La combinazione di queste differenze, decisamente note ai cittadini dei paesi arabi, sembra privare i vari movimenti di protesta di una qualsiasi opzione e visione politica con cui contrastare i regimi al potere. Ovunque si volgano in cerca di modelli plausibili, troveranno solo fallimenti e violenze. Ergo, le aspettative sono decisamente basse, anche all’interno di quelle piccole fasce di popolazione che, nonostante tutto, nutrono ancora qualche speranza verso l’avvento di un cambiamento profondo, pacifico e duraturo.
Cosa aspettarsi nel prossimo futuro
Al contempo è abbastanza utopico pensare che i governi al potere non siano coscienti di queste spinte dal basso a cui stiamo assistendo, e, come dimostra la posizione dei militari in Algeria che tutto preannuncia meno che l’avvento di politiche liberali o progressiste, si può dare per scontato che questi si stiano anche già muovendo al fine di non farsi superare dagli eventi. Non è altrettanto valida l’opzione di aggrapparsi semplicemente a quella presunta stabilità assicurata dei regimi esistenti, sebbene una piccola percentuale di individui siano tentati verso questa strada. È plausibile, quindi, che un piccolo germoglio sia stato piantato nel corso degli eventi del 2011 e, lentamente, questo stia crescendo sottotraccia, diffondendosi e lentamente lasciando tra i cittadini la consapevolezza che i governi hanno una responsabilità verso la società civile maggiore rispetto al mantenimento assoluto dell’ordine pubblico.
La Primavera Araba è stata quasi completamente un fallimento come rivoluzione, ma potrebbe essere considerata nel medio termine un evento decisivo per l’avvio di una vasta trasformazione socio politica di quella fascia territoriale. Il cambiamento sociale, se necessario, avviene perfino nelle condizioni politiche più avverse. Certo non si soffrirà lungo questa via la mancanza di ostacoli, cosa che lascerà, data la prossimità geografica, in una situazione difficile anche l’Europa: è evidente, dato il caso egiziano o quello saudita, paesi tradizionalmente presi come riferimento per tutti i vicini, che l’Occidente non può più essere visto come un modello rapidamente applicabile alla regione. D’altra parte, noi europei non possiamo risolvere i problemi del mondo arabo e tantomeno ignorarli, per quanto sia particolarmente divertente l’egoistica lotta all’immigrazione priva di soluzioni per i paesi di partenza: molti giovani nati nei territori del Medio Oriente vedono come ovvia nonché, talvolta, unica soluzione l’emigrazione, obbligando l’Europa a continuare a vivere in stretto contatto con la condizione socio-politica araba. Si deve soltanto sperare che le esperienze del 2011 abbiano lasciato una traccia positiva e che quindi, questa volta, si seguano percorsi meno pericolosi e violenti.
Ma quest’esito è oggi messo nuovamente in bilico, soprattutto guardando all’attuale clima politico egiziano: qualora il presidente vedesse sé stesso come l’unico e ultimo scoglio a protezione dalla deriva islamista o dalla guerra civile, fatalmente prenderà gli stessi passi già precedentemente intrapresi da Mubarak. L’unica soluzione per far sì che i propositi di cambiamento sociale siano attuati e, soprattutto, siano attuati in maniera quanto più pacifica possibile, è quella nella quale il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi comprenda e accetti quelli che sono i limiti del suo ruolo, lasciando aperta una via di compromessi politici faticosi e di maggiore sensibilità verso le richieste popolari.