Parlando con un caro amico, l’altro giorno, ci siamo trovati immersi in una conversazione tanto serena quanto profonda, come accade talvolta tra spiriti affini che, pur navigando mari diversi, riconoscono nel cielo notturno la medesima stella polare. Abbiamo trattato della verità religiosa, quella sfuggente fiamma che l’uomo, povera creatura a metà fra fango e fuoco, ha tentato invano di imprigionare nei suoi templi, nei suoi testi e nei suoi dogmi, come se potesse afferrarla tutta intera e stringerla al petto come un trofeo, incorruttibile al tempo e alla mutabilità dell’animo.
Ma in quell’istante, come un alito sottile che attraversa una sala silenziosa, è sorta dentro me una riflessione che da tempo covava sotto le ceneri della coscienza: che la domanda stessa “qual è il giusto cammino?” sia già viziata da un errore originario. Come il cercatore che si smarrisce perché ha confuso la mappa con il paesaggio, così molti errano perché cercano una via unica, una scala d’oro che conduca in alto, senza considerare che l’ascesa, in verità, avviene lungo sentieri molteplici, diversi per ciascun’anima. Alcuni sono stretti come la gola di una montagna, altri larghi e soleggiati come una valle; alcuni sono rapidi e impetuosi, altri meditativi e circolari, come il lento ruotare di una stella nel firmamento. E tuttavia, tutti questi cammini, se percorsi con cuore puro e intenzione risvegliata, conducono infine al medesimo luogo: il cospetto del Divino, il centro incandescente da cui tutto irraggia e a cui tutto ritorna.
Dio ti protegga, straniero! Se hai sentito qualsiasi cosa relativo alle nozze del Re, tieni a mente queste parole. Tramite noi, la Sposa ti ha offerto la possibilità di scegliere tra quattro strade, e tutte e quattro, se non deciderai di arrenderti lungo la strada, ti porteranno parimenti alla corte reale.
(da “Le Nozze Chimiche di Christian Rosenkreutz”)
Così come nell’antica allegoria rosacrociana, ciascuno ha una via che gli è destinata, non da un fato cieco, ma dal tessuto profondo del proprio spirito. Vi sono cammini scolpiti per i forti di cuore, per coloro che affrontano il drago nel deserto e lo chiamano fratello; altri per i miti e i silenziosi, che siedono sotto l’albero e ascoltano il vento che sussurra il nome dell’Eterno. Alcuni trovano il divino tra le pieghe del silenzio claustrale, altri nel fragore del mondo; alcuni lo cercano nella discesa negli inferi dell’anima, altri nella luce che filtra dalla cima delle montagne interiori.
Ma in ogni caso, la bontà di un cammino spirituale non si misura dalla sua antichità o dalla sua autorità dottrinale, bensì dalla sua capacità di condurre alla gnosi, quella conoscenza bruciante e trasformante, che non è accumulo di nozioni, ma trasfigurazione dell’essere. Quando l’anima tocca l’Assoluto, anche solo per un istante, essa non può più tornare quella di prima. E non importa se l’abito esteriore sia quello di un cristiano devoto, di un sufi danzante, di un yogi in meditazione o di un contadino che invoca il cielo tra le zolle: chi giunge a quella soglia ha trovato la propria via autentica.
Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!
(Matteo 7:13-15)
Tuttavia, nella nostra epoca che si proclama adulta, e che pur si aggira come un fanciullo smarrito tra le rovine dei significati, si è dimenticato che la religione non è fine, ma forma; non verità assoluta, ma struttura pedagogica. È bastone, non prigione. È la lingua con cui l’invisibile si è sforzato di farsi comprensibile, non l’invisibile stesso. Ma ecco l’errore comune: scambiare il guscio per la perla, il simbolo per ciò che esso rappresenta. Così vediamo moltitudini impegnate in pratiche rigorose, in osservanze scrupolose, con un fervore che meriterebbe lode; e tuttavia, la loro vita è miserabile, la loro anima resta immobile, come se danzassero senza musica, come se camminassero senza destinazione. Perché chi dimentica la meta, anche il sentiero più sicuro diventa labirinto.
All’opposto, c’è chi, nauseato dal dogma e stanco della forma, cerca rifugio in una spiritualità senza ossatura: un sincretismo svuotato, che accumula oggetti sacri come un alchimista impazzito che cerca l’oro senza conoscere il fuoco. Si proclamano “spirituali”, ma non sono guidati dalla fiamma interiore, bensì da un desiderio estetico del mistero. Eppure, il mistero non si lascia possedere da chi lo usa come ornamento. Senza comprensione, senza purificazione, senza volontà trasparente, i loro rituali sono riti senza potere, i loro simboli porte chiuse, i loro strumenti corde su uno strumento che nessuno ha imparato a suonare. E giunge, immancabile, la delusione: l’amara convinzione che “nulla funziona”. Ma il problema non è l’assenza del Divino, ma piuttosto l’assenza dell’invocazione autentica.
Perché, alla fine, la spiritualità che non trasforma è soltanto vanità vestita di luce. Se essa non plasma l’anima, se non scioglie i nodi del cuore, se non muta, sia pur lentamente, la nostra coscienza, allora è solo un riflesso privo di sorgente, uno specchio posto di fronte a un’ombra. Il contatto col Divino non è mai indolore. Esso scuote, brucia, rivela. Chi vi si accosta con sincerità non può restare com’era: o l’illusione viene infranta, o l’anima si ritrae, incapace di sostenere il fuoco. Non vi è terza via.
In questo nostro tempo confuso, dunque, non è più urgente proclamare quale religione sia la vera, ma insegnare a cercare la verità stessa: quella senza nome, che si cela nel cuore di ogni autentica esperienza spirituale, e che sfugge a ogni possesso. Occorre educare le anime a leggere i segni interiori, a distinguere la trasformazione reale dalla suggestione emotiva, il simbolo dalla presenza. Bisogna avere il coraggio di abbandonare il conosciuto per il vero, di lasciare anche ciò che è caro, se impedisce il cammino.
Perché la meta, una sola, è conoscere il Divino non con la mente soltanto, ma con tutto l’essere. E ogni via che conduca sinceramente a quella soglia, sia essa lastricata d’oro o scavata nel fango, è la via giusta, per colui che vi cammina.